Mi chiamo Giovanni Ambrosio, ho 37 anni. Sono nato a Napoli ma vivo a Parigi. La maggior parte del tempo, ma non sempre: a volte sono anche a Napoli, a volte sono anche a Lisbona, a volte sono anche altrove. Sono fotografo, ma non solo, e a tempo pieno dal 2010, prima ho per lo più insegnato. Lavoro essenzialmente a Parigi, ma non solo. I miei progetti personali sono quasi tutti basati sull’uso dei generi classici della fotografia d’arte, ai quali mi riferisco di solito in latino: effigies, spatium, argumenta, naturae mortae, abstracta.
Cerco di estrarne dei modelli da usare come strutture formali che mi permettano variazioni di contenuto. La fotografia è la mia materia principale, ma non l’unica. Parallelamente mi dedico a dei lavori su commissione in fotografia – ritratti, arti performative, spazi, reportages – ma anche in grafica, comunicazione, e progetti pedagogici. Mi piace chiamarli Studio.
Lo considero anche un luogo dove poter sperimentare delle materie visive che potrebbero alimentare la mia ricerca personale.
Quando hai iniziato a fotografare e perchè?
Ho iniziato a fotografare quando avevo 18 anni, perché i mei genitori mi hanno regalato una macchina fotografica reflex. Non so come abbiano avuto l’idea, non credo neppure sapessi cosa fosse la fotografia prima. All’università ho cominciato a seguire il corso di Fotografia e Desiderio di Sergio de Benedittis a Napoli e per qualche tempo ho fotografato, ma senza molta coscienza. Poi per anni ho messo la fotografia completamente da parte, in fondo non mi convinceva la sua retorica un poco formalista, la sua pretesa di aderire perfettamente alla realtà (questo per lo meno ero quello che avevo capito io della fotografia). Poi riprendendo gli studi in Francia nel 2010 ho riscoperto la fotografia come materia poco costosa e infinitamente rimodellabile e in più estremamente facile da utilizzare. Mi servo spessissimo della modalità automatica o semiautomatica. Contano il gesto ed il processo per me, meno la precisione tecnica.
Il tuo / i tuoi generi fotografici?
Tutti, in particolare modo quelli per i quali non ho una inclinazione naturale, come il ritratto, oppure il genere documentario. Mi piace in particolar modo la modalità di lavoro legata alla natura morta. La mia idea è servirmi di strutture codificate semplici e riconoscibili e ricavare al loro interno degli spazi di riflessione più ampia. Un po’ come uno scrittore che si serve della forma del romanzo giallo ma non essenzialmente per raccontare un crimine e la sua risoluzione. Mi interessa la questione della rappresentazione. Capire per esempio per quale motivo una persona sceglie o ha bisogno di farsi un ritratto. Perché e cosa vuol dire dover o poter rappresentare qualcosa, come la vita nei campi dei migranti di Calais. E quale pensiero produce il fatto di rappresentare per immagini.
La tua giornata tipo?
Dipende dai posti in cui mi trovo e in generale dai motivi per i quali ci sono. In assoluto nessuna giornata può cominciare senza una macchinetta di caffè sul fuoco. Ma normalmente di mattina mi dedico ai lavori su commissione, rispondo alle email, perdo tempo leggendo i giornali. Di pomeriggio mi concentro sui miei lavori personali, oppure leggo o vado alle mostre, o in biblioteca. Spesso lavoro alle mie cose anche a notte tarda.
Puoi raccontarci la fotografia più importante della tua carriera o quella a cui tieni di più?
Non credo ci sia una fotografia particolarmente importante, del resto le foto singole per me hanno poco senso, penso quasi sempre per serie o collezioni. Ma alcune alle quali tengo in particolare si. Come per esempio questa della spirale che viene dalla prima pellicola che ho comprato in assoluto, una Kodak 25 asa. Non sapendo neanche cosa fosse l’apertura o l’esposizione ho scoperto per caso alcune cose che sono rimaste dei motivi estetici che amo molto: il bianco e il nero, senza sfumature di grigio. E l’astrazione. Poi questo ritratto, col quale ho cominciato a lavorare alla serie Garder les gens altérer la forme: mi fai una foto? Mi serve per il curriculum. E questa ancora, che appartiene alla serie Please do not show my face, il lavoro che è frutto della mia partecipazione da due anni a questa parte ad un viaggio scolastico a Calais e Dunquerke con un mio amico professore di storia.
Cosa c’è dentro la tua borsa fotografica?
Il meno possibile. Mi piace camminare. La macchina ed un obiettivo Voigtländer pancake che è molto piccolo ed avendo solo la messa a fuoco manuale è molto impreciso e questa cosa mi piace molto. Prima che cominciasse a funzionare male mi portavo dietro solo una Leica Minilux totalmente automatica, dovevo solo premere il pulsante, mi piace più osservare che fare foto in sé. Me la porto ancora a volte, poi spesso faccio sviluppare la pellicola dopo anni . Ma mi mi piace quest’idea che la materia fotografica possa essere dimenticata e marcire e modificarsi da qualche parte. Lascio anche i raw spesso a sedimentare. Se qualcuno mi obbliga a fare foto in cambio di soldi mi porto dietro anche due obbiettivi, un 24-70 e un 16-35 e a volte pure un 70-300. Il mio corpo macchina è Canon Eos 5d mark III. Così certe volte mi pare di essere un vero fotografo.
Cosa pensi di aggiungere a breve nella borsa e cosa invece pensi di dare via?
Non mi dispiacerebbe prendere una macchina compatta digitale, piccola e tascabile. E automatica. Per ora non darei via niente, ho l’essenziale.
Il sito di fotografia che visiti più spesso?
Dipende dai momenti. Ultimamente consulto regolarmente Phases Magazine, British Journal of Photography, Fotografia Magazine, C41, il blog del museo di Fotografia di Winterthur.
Grazie Giovanni!