Mi chiamo Giuseppe Carotenuto e lo scorso 31 ottobre ho compiuto 31 anni. Vivo di fotografia, un’impresa ardua di questi tempi, ma credo sia molto più difficile giungere alla scelta di mollare, anziché continuare a credere in quello che si ama. A 19 anni, finiti gli studi di fotografia a Napoli e successivamente iscritto all’albo dei giornalisti pubblicisti mi sono trasferito a Roma per arruolarmi nell’Esercito Italiano. Per tre anni ho svolto servizio militare presso l’ufficio pubblica informazione dello Stato Maggiore dell’Esercito, con l’incarico di fotografo. Nel 2007 ho lasciato la divisa per dedicarmi completamente al fotogiornalismo, inizialmente lavorando per l’agenzia fotografica ImagoEconomica e successivamente entrando a far parte dello staff di LuzPhoto, erede della storica agenzia Grazia Neri. Dopo qualche anno ho maturato la decisione di lavorare in forma completamente autonoma per i magazine italiani e stranieri, realizzando reportage di approfondimento sui maggiori eventi di carattere politico, sociale ed economico del nostro “Bel Paese”. Emergenza rifiuti in Campania, Emergenza immigrazione a Lampedusa e molteplici inchieste in Calabria per il settimanale L’Espresso sono state nei primi anni anni un buon campo di allenamento. Questo percorso di crescita professionale mi ha portato nel corso degli anni a vivere in prima persona molteplici esperienze anche all’estero, quali: La rivoluzione dei Gelsomini in Tunisia, la guerra in Libia, i profughi del South Sudan, le proteste in Turchia del 2013, ma il lavoro, progetto fotografico più lungo al quale sto ancora lavorando è quello sui militari italiani in Afghanistan.
Quando hai iniziato a fotografare e perchè?
La fotografia è sempre stata presente nella mia vita, sin da quando ero piccolo. Mio padre Vincenzo possedeva una piccola macchina fotografica compatta, con la quale scattava almeno due pellicole a settimana, raccontando la quotidianità e gli eventi in famiglia. E’ grazie a Lui che all’età di dodici anni, mi sono appassionato alla fotografia. Ricordo che al secondo anno di scuola media, in vista di una scelta di un istituto superiore l’anno successivo, mi propose di provare a conoscere la fotografia, imparando anche un lavoro, presso lo studio fotografico specializzato in cerimonie di un suo amico. Mi appassionai subito al lavoro, così da scegliere di iscrivermi ad un istituto superiore di fotografia a Napoli.
Il tuo / i tuoi generi fotografici?
Nel corso degli studi di fotografia condotti presso un istituto professionale di Napoli, ho avuto modo di studiare tutti i generi di fotografia, soltanto uno è stato quello che mi ha sempre affascinato più di tutti, il reportage. Diversamente dalla moda o lo still-life, la fotografie di reportage, il fotogiornalismo, era capace raccontare anche in un singolo scatto più di quanto immaginassi. Predominava l’idea del viaggio e successivamente, il desiderio di voler raccontare storie, essere testimone di avvenimenti che avrebbero cambiato un paese , un popolo. Ancora oggi posso affermare che la mia fotografia è fotogiornalismo.
La tua giornata tipo?
Mi sveglio col piede sinistro, quello giusto, canta Morgan in una delle sue canzoni, mie preferite. Rispetto agli anni in cui ho lavorato per i quotidiani le mie giornate hanno subito un cambiamento radicale. Radicale in termini di salute, perché quando scatto non sono più appesantito da borse, zoom e computer; e in termini di tempo per poter scattare buone foto. Non essendo più legato all’immediatezza della notizia, passo molto più tempo a casa a fare ricerca e allo stesso tempo di conoscere bene i luoghi e le persone che ho intenzione di fotografare. C’è da dire che oggi grazie ai social network, è possibile riuscire ad ottenere ancor prima di arrivare sul posto dei buoni contatti. Nonostante tutto, mi può capitare di dover saltare questi passaggi quando ricevo un commissionato da un magazine da dover realizzare in pochi giorni a volte anche in uno.
Puoi raccontarci la fotografia più importante della tua carriera o quella a cui tieni di più?
Pubblicare foto in copertina o doppie pagine di importanti magazine, danno sempre un grande senso di soddisfazione, stessa cosa è quando si pubblica un intero reportage. Le foto più importanti nella carriera di un fotografo sono spesso quelle che ricevono premi prestigiosi, io non l’ho ancora scattata. Ma c’è una foto a cui tengo molto, non tanto per quanto questa sia una foto, bensì per il soggetto ritratto nella foto. Sto parlando di Matteo Miotto, giovane militare italiano rimasto ucciso durante un attacco al combat out-post “Snow” nel distretto di Buji in Afghanistan, il 31 dicembre 2010. La foto di Matteo appartiene ad una serie di ritratti che scattai nella base avanza italiana “Ice” nel distretto del Gulistan, che ritraevano i ragazzi del terzo plotone della 66ma Compagnia del 7mo Reggimento Alpini di Belluno, in partenza per il turno di guardia presso il combat out-post “Snow”, Buji. Io e lo scrittore Paolo Giordano decidemmo di seguire il terzo plotone nelle varie operazioni giornaliere, fino al giorno della partenza per l’avamposto Buji. La sera prima della partenza, dopo aver scattato i ritratti, lasciai ai ragazzi un quaderno dove chiesi a chi avrebbe voluto, di scrivere una pagina di diario che non raccontasse per forza dell’Afghanistan, anche se questo era inevitabile per quello che stavano vivendo. Tutti scrissero qualcosa su quel quaderno, tranne Matteo. Il giorno dopo, all’alba, a bordo di tre Black Hawk dell’esercito americano e scortati da altrettanti tre elicotteri da combattimento Mangusta dell’esercito italiani, accompagnammo il plotone fino a destinazione. Dallo Stato Maggiore della Difesa, ci fu negata la possibilità di restare a Buji per motivi di sicurezza e logistici. Tornati in Italia, Vanity Fair pubblico il reportage che svelava all’opinione pubblica italiana l’esistenza di una base segreta italiana nella valle del Gulistan, una delle zone più calde dell’area di competenza italiana RC-WEST, per la presenza attiva di molti talebani. Chiesi allo stato maggiore della difesa di tornare a Buji per realizzare un servizio durante le festività natalizie, anche questa volta il permesso mi fu negato. Così proprio il 31 dicembre, appresi la notizia della morte di Matteo grazie ad una chiamata di Paolo. Da quel momento decisi che avrei continuato a raccontare la missione italiana in Afghanistan concentrandomi sulla “condizione umana” dei militari all’interno degli avamposti. Un progetto su cui sto lavorando ancora per fare si che diventi un libro il prossimo anno a 15 anni dall’inizio della guerra.
A questo link potete vedere il lavoro sui Diari.
Cosa c’è dentro la tua borsa fotografica?
Dentro la mia borsa fotografica c’è una fotocamera digitale reflex 35mm, Canon Eos 5D Mark II, obiettivo Canon 35mm f1.4, obiettivo Canon 85mm f1.8, una fotocamera digitale mirrorless FujiFilm X100T con ottica fissa equivalente a 35mm f2. Un vano schede Compact Flash e SD, varie batterie di riserva, un microfono RODE, una lampada a LED, un riempitivo oculare per LCD della fotocamera per permettere una buona visone durante riprese video.
Cosa pensi di aggiungere a breve nella borsa e cosa invece pensi di dare via?
Chi non ha sogni nel cassetto! Qualche giorno fà ho fatto in modo che uno di questi si realizzasse. Ho acquistato una fotocamera analogica medio formato 6×7 a telemetro. Mamiya 7 con un kit competo di obiettivi 43mm, 65mm, 80mm e 150mm. Ricordo di aver utilizzato questa fotocamera quando facevo l’assistente fotografo di cerimonie. Una fotocamera leggerissima con scatto silenziosissimo. Una scelta legata ad un ulteriore e graduale cambiamento che sta avvenendo nella mia vita professionale, quindi quale buon momento!
Il sito di fotografia che visiti più spesso?
Non ho un sito di riferimento, consulto tutto ciò che desta in me interesse, mi attrae a volte anche che non è di mio piacimento. Piuttosto preferisco andare alle mostre, un buon motivo per incontrare di persona gli autori e capirci qualcosa in più da vicino rispetto al lavoro che ho apprezzato o no. Non sono pienamente d’accordo nella pratica di visionare continuamente lavori, questo potrebbe inquinare la visione personale, lo sviluppo di nuove idee, lo “stile” e perché no anche la composizione delle immagini. Faccio qualche esempio: quante foto simili al bambino fotografato in Cecenia da James Nachtwey, quante foto simili al Bacio di Eliott Erwitt e così via … potremmo elencarne tanti.
Grazie Giuseppe!
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