Mi chiamo Stefano Moscardini, sono nato nel 1981 in un piccola cittadina del nord Italia e faccio foto. La mia formazione universitaria in psicologia esula completamente dall’ambito fotografico, ma invariabilmente si rivela essere uno degli aspetti cardine del mio approccio esplorativo ai soggetti della mia fotografia. Geograficamente parlando, non ho ancora deciso dove mettere radici e sono in procinto di tornare a vivere a Roma per la seconda volta nella mia vita. Ho lavorato come fotografo di still life e commerciale in un piccolo studio; ritrattistica ed editoriale per un magazine; ho scelto la difficile, ma soddisfacente, strada del freelance e ho pubblicato due reportage.
Quando hai iniziato a fotografare e perchè?
Cominciamo con una domanda difficile. Mi piace cominciare a fare le cose, la sensazione di accumulare competenze mi entusiasma e all’inizio del processo di apprendimento, la cosa è quasi palpabile. Quindi mi piacerebbe pensare di non aver ancora finito di cominciare a fotografare.
Il tuo / i tuoi generi fotografici?
I miei generi fotografici sono il reportage e il ritratto, entrambi per lo stesso motivo. La mia fotografia è alimentata in maniera molto diretta e viscerale dalla mia curiosità: il reportage è esplorazione, scoperta, studio e, solo in un secondo momento, fotografia. Questo climax è ciò che amo del mio lavoro e ciò che vivo, in una forma più contenuta, ma non meno affascinante, anche quando mi dedico al ritratto. Anche in questo caso, saper comprendere e carpire la vera natura del soggetto è assolutamente indispensabile.
Ho una visione molto poetica della figura del reportagista, e credo che il suo ruolo comporti enormi responsabilità, in termini di onestà nei confronti del pubblico e integrità e rispetto verso i soggetti. Una volta mi hanno detto che quella del reportagista non è una carriera, ma una vocazione. Ad anni di distanza, mi trovo molto d’accordo, ma è una vocazione che mi ha permesso di crescere molto umanamente e professionalmente.
La tua giornata tipo?
La mia giornata tipo esiste solo in fase di editing. Quando sto scattando, seguo la corrente degli eventi che mi accadono intorno, quindi mi adatto agli orari e alle situazioni in cui sono immerso. Al computer, invece, è tutto molto diverso. Inizialmente passo le giornate a fare selezioni e sviluppare le immagini senza pause, dalla mattina alla sera. È un processo ossessivo e sfiancante, non propriamente un workflow ideale. Poi subentra la fase di correzione, più razionale e lenta, in cui limo tutte le imperfezioni lasciate dall’approccio “di pancia”.
Puoi raccontarci la fotografia più importante della tua carriera o quella a cui tieni di più?
La fotografia a cui tengo di più è sicuramente la copertina di Suspension of Disbelief, il mio libro sui moderni rituali di sospensione corporale. La foto ritrae una ragazza durante uno di questi rituali, su una spiaggia in Italia. Ho passato tre anni nella suspension community, scattando foto in Norvegia, Serbia, Croazia e Italia, scoprendo un mondo che prima di iniziare questo viaggio mi era completamente oscuro. Parte del materiale raccolto è stato esposto al Royal Anthropological Institute e devo dire che è stato un grande onore; ma ciò che mi spinge ad andare avanti su questa strada è il contatto con persone e realtà affascinanti, e la possibilità di condividere l’esperienza con tutto il mondo, grazie alla fotografia. Credo che tutto il mio lavoro si possa riassumere in questo, e che l’immagine della ragazza sulla spiaggia rappresenti bene tutto ciò che il reportage mi ha dato e continua a darmi.
Cosa c’è dentro la tua borsa fotografica?
Nella mia borsa fotografica c’è attrezzatura leggera e pratica. Mi sono innamorato della Olympus OM-D EM-5 nel 2012 e da allora non ho più usato altro. Come lenti, ho sempre con me uno Zuiko 17mm F1.8 e uno Zuiko 45mm F1.8. Anche se amo lavorare con la luce naturale, a volte è necessario l’intervento del mio LED Videolight 240 della Seamless, che mi permette di gestire luci e ombre in maniera molto efficace e veloce. E, tra le altre cose, ha dimensioni molto contenute, un’altra condicio sine qua non per entrare nella mia borsa fotografica.
Quando si tratta di scattare ritratti, le cose cambiano. Uso un set di due flash Cactus RF69 e un transceiver Cactus V6, spesso supportati da un terzo Canon Speedlite 580, tutti con softbox portatili e sorretti da altrettanti monopiede. In pratica, anche il mio equipaggiamento “da studio” è in realtà il più portatile possibile.
Cosa pensi di aggiungere a breve nella borsa e cosa invece pensi di dare via?
In questo momento sono quasi tre anni che non apporto modifiche al mio set di macchina e lenti. Credo sia arrivato il momento di abbandonare l’amato Zuiko 17mm F1.8 per prendere due lenti più specializzate: lo Zuiko 12mm F2 e lo Zuiko 25mm F1.8. La tentazione di prendere il Panasonic Leica DG Summilux 25mm F1.4 è tanta, ma le sue dimensioni contravvengono a tutti i miei dogmi sulla leggerezza e portabilità delle mie lenti.
Il sito di fotografia che visiti più spesso?
Non sono un accanito lettore di siti di fotografia mainstream. Li seguo sui social, per tenermi aggiornato, ma non li visito spesso. Al contrario, subisco molto il fascino dell’antropologia e dei fenomeni sociali, quindi spesso finisco per cercare quel tipo di informazione su siti come LightBox di Time.com o tra i lavori pubblicati dalle agenzie come Getty Reportage o Magnum.
Grazie Stefano!
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Lulu